:: 17.5.06 ::
– Ouagadougou –
Sono a cena con il presidente del Burkina Faso completamente ubriaco.
:: D 07:09 [+] ::
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:: 22.8.05 ::
– Shanghai –
In questi due giorni ho camminato tanto. Purtroppo il mio senso d’orientamento si e’ sviluppato troppo ed ora non riesco piu’ a perdermi nelle citta’ come una volta.
Shanghai mi ha spiazzato. La cosa che piu’ mi ha colpito della citta’ in questi tre giorni e’ stata il silenzio. Mai avrei pensato di essere colpito dal silenzio a Shanghai, ed in parte cio’ e’ frutto delle aspettative che un occidentale si e’ necessariamente creato dopo avere letto per anni della Cina e di quello che qui sta succedendo. Mi immaginavo una citta’ estremamente caotica e disordinata, ed invece non mi e’ parsa piu’ caotica e disordinata di tante altre citta’ di paesi sviluppati o in via di sviluppo. Shanghai e’ una citta’ senz’altro vivace e rumorosa, le strade intasate di macchine, biciclette, persone, gli odori che escono dai baracchini dei venditori che cucinano sul marciapiede, i colori delle insegne e delle pubblicita’ intorno. Eppure per ora ho avuto l’impressione che tutto cio’ che sta davvero succedendo in questo paese, tutto cio’ di cosi’ potente ed unico di cui per anni si e’ letto e sentito, avvenga nel piu’ assoluto silenzio e nella piu’ totale discrezione. Come se ci fosse da una parte una struttura, i cinesi ed in particolare i lavoratori cinesi, che in silenzio, senza ridere e senza piangere, lavorano come macchine allo sviluppo dell’economia di cui sono pedine involontarie, e dall’altra una sorta di sovrastruttura, fatta dallo stato, dalle imprese locali, dagli investitori internazionali che a sguardo basso, senza dare troppo nell’occhio e senza fare rumore inutile, dirigono questo sviluppo.
Due giorni fa sono stato a Pudong, il nuovo quartiere direzionale che fino agli inizi degli anni 90 era un enorme campo dove si coltivavano ortaggi ed ora ha una skyline di grattacieli paragonabile a quella di New York o di Hong Kong. Pudong sta dall’altra parte del fiume, e per arrivarci si puo’ prendere una specie di piccola metropolitana pensata – spero – per i turisti e per offrire una sorta di esperienza futuristica come preludio all’arrivo al quartiere del futuro. Il tunnel e’ una via di mezzo tra il trenino degli orrori del luna park, un documentario sull’universo e la formazione del mondo in uno schermo tridimensionale, ed una galleria autostradale sulla Serravalle. Le pareti del tunnel si illuminano in modo gratuitamente psichedelico, la musica ed una voce bilingue accompagnano il cambio delle scene lungo tutto il percorso.
Quando esco a Pudong il cielo e’ scuro, non piove ma i fulmini colpiscono simultaneamente le punte dei grattacieli piu’ alti. Comincio a camminare e cammino per due ore in mezzo ai grattacieli ed ai palazzi, che crescono e si evolvono in modo moderno e senza segni di tradizione sopra questo enorme campo. I grattacieli appaiono inquietanti, prima di tutto perche’ sono ben piu’ distanti l’uno dall’altro di cio’ che si immagina da lontano, e quindi piu difficili da raggiungere, e poi perche’ lo stile e’ evidentemente aggressivo e grandioso, di una grandiosita’ sfacciatamente pacchiana, ma efficace.
Eppure, in mezzo al centro di quello che chiamano il nuovo centro del mondo domina il silenzio. Della vita dei grattacieli nessuno riesce a percepire nulla: gli spazi grandi ammorbidiscono il rumore attorno e stemperano il caos che ci si aspetterebbe in un luogo cosi’ denso di attivita’. Immagino questo come il centro di comando della sovrastruttura silenziosa che avvolge lo sviluppo isterico ma solido di questo paese, come la stanza dei bottoni che gestisce, silenziosamente, l’ altra struttura, quella fisica vera e propria, fatta delle persone che vivono e lavorano, giusto dall’altra parte del fiume e di li in tutto il resto del paese, e che vivono e lavorano come macchine senza ridere e senza piangere, dunque, in fondo, semplicemente in silenzio.
:: D 22:41 [+] ::
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:: 12.8.05 ::
– Rio de Janeiro –
La spiaggia di Copacabana e’ luogo di terapia, piu’ che di sfoggio del corpo. A differenza, che so, del lungomare di Venice Beach, di Central Park, o di Viale Ceccarini a Riccione, qui piu’ che corpi statuari si concentrano chiappe flaccide e pancette a coprire leggermente la cinta dei pantaloni. Chi corre e suda in costume da bagno la mattina alle 8, sopra la sabbia bianca in riva al mare con lo sfondo della citta’ piu’ stupenda del mondo, lo fa generalmente perche’ sul corpo deve lavorare, e di solito ancora tanta strada deve fare. Quelli che il fisico se lo sono gia’ fatti sono a sculettare con le braccia alzate sui carri del carnevale, oppure, piu’ semplicemente, a lavorare.
Fare colazione a Rio dopo avere cenato a Milano aiuta sempre a risolvere il leggero intorpidimento da jet lag. In particolare, l’ individuazione del giusto baracchino di succhi tropicali e del suo miscuglio di punta, la Super Bomba – contenente una decina di frutti dei quali almeno cinque o sei mai sentiti prima, ma sicuramente al limite della sostanza stupefacente – aiuta nella fatica di tutti i giorni.
Rio de Janeiro, sia la prima o la centesima volta che ci si arrivi, evoca il piacere di vivere, nell’ accezione piu’ crassa e superficiale, ossia temperatura, sole, mare, verde, cibo, odori, calcio, gente, bambini. Camminare a torso nudo nell’ inverno brasiliano e’ uno spettacolo di vita, un piacere inimmaginabile. E mentre mi compiaccio del sole e del vento sulla faccia, la gente normale, prima di andare a lavorare, o in sostituzione del lavoro, attorno a me vive questo paradiso come se gli fosse dovuto. Sulla spiaggia tante piccole scenette di teatro una dietro l’altra: bagnini che cominciano ad organizzare i territori per la giornata, vecchi che camminano alzando e abbassando le braccia, bambini che corrono con piccole tavole da surf, coppie grasse che giocano sul lungomare, e tutti gli altri che stanno a guardare come comparse in attesa di diventare essi stessi attori. E dietro tutto cio’, una citta’ che pulsa; e sopra tutta la citta’ che pulsa, la statua a benedire Copacabana, i bagnini, i bambini, e pure tutti gli altri, quelli dall’altra parte, quelli senza mare, senza sole, senza verde e senza cibo.
:: D 10:42 [+] ::
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:: 17.7.05 ::
– Simatai –
He who has not climbed the Great Wall
is not a true manL’ uomo che non ha mai scalato la Grande Muraglia
non e’ un vero uomoChairman Mao Tsetung
:: D 07:25 [+] ::
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:: 11.7.05 ::
– Hong Kong –
Passare dal centro di Hong Kong ad una spiaggia in mezzo al nulla piena di cinesi nel Guandgong, e poi di nuovo ad Hong Kong, e’ un’ esperienza inaspettatamente estrema.
Hong Kong e’ l’ unica metropoli al mondo, con New York, dove il rumore non e’ frastuono, ma energia. Con New York, Hong Kong e’ l’ unica metropoli che abbia mai visto nella quale l’intensita’ della vita e’ cosi’ forte, e l’unica dove cosi’ forte rimane a qualsiasi ora del giorno e della notte, ed in qualunque area. Honk Kong e’ una metropoli unica, una indescrivibile terra di mezzo, una citta’ che si muove, appunto, come si muovono i capoluoghi del mondo, ma che ha, in aggiunta, una vibrazione strana. Sicuramente, il primo pensiero e’ che questa sia l’effetto dell’ esotismo del luogo, della natura tropicale che fiorisce attorno ai grattacieli, del travolgente impatto della densita’, in termini di persone, razze, colori dei cartelli appesi sopra le strade con gli ideogrammi cinesi, insegne di negozi impilati l’ uno sopra l’altro perche’ non c’ e’ spazio.
Eppure, dopo essermi distaccato per una giornata intera in una spiaggia in mezzo al nulla, cio’ che mi ha ricordato Hong Kong e cio’ che mi ha colpito ancora ritornandoci, attraverso la frontiera – due muri di cemento con il filo spinato ed in mezzo un fiume grigio – la dogana, la polizia e le migliaia di frontalieri che ritornavano la domenica sera, cio’ che ho astratto distaccandomene e’ una sorta di masochismo, della citta’ e quindi, per forza, dei suoi abitanti. Una citta’ troppo calda, troppo umida, troppo intensa, troppo densa e troppo laboriosa per la latitudine, lo spazio disponibile, le razze che la popolano e l’efficienza delle professioni che vi si concentrano; una citta’ che non puo’ che farsi male senza motivo, dove i temporali tropicali improvvisi e sempre inesorabili, che si vedono muovere veloci in mezzo ai grattacieli, in fondo sembrano una punizione, un avvertimento, uno scherzo di Dio cui tutti i passanti per le strade non riescono a scappare, semplicemente perche’, nelle strade nervose di Hong Kong, non c’ e’ tempo e non c’e’ spazio.:: D 06:41 [+] ::
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:: 4.7.05 ::
– Beijing –
A Pechino, come a Shanghai, e come, immagino, nel resto della Cina, muoversi non e’ facile. Quest’ oggi ho impiegato circa tre ore per trovare l’edificio dove volevo andare, in parte perche’ nessuno, ma proprio nessuno, parla una lingua diversa dal cinese, inclusi i tassisti, i quali comunque spesso non sanno leggere neanche il cinese, se questo e’ scritto troppo piccolo, e pure a volte se e’ scritto grande, e di solito una volta che si arriva al nome, comunque non sanno come arrivare al luogo, anche’ perche’ non sanno leggere le mappe, di qualsiasi lingua siano; in aggiunta e soprattutto, io non parlo – per ora – e non leggo cinese, che e’ l’ unica lingua in cui sono scritti i nomi degli edifici e spesso delle vie, sempre che i nomi delle vie siano scritti sulle vie. In aggiunta a cio’, i cinesi hanno la pessima abitudine di volere rispondere alle domande in qualche modo anche se non conoscono le risposte, il che puo’ sviare un viaggiatore e dunque, nel caso particolare, me.
Dopo tre ore dunque sono arrivato alla citta’ sotterranea dove volevo arrivare. La citta’ sotterranea di Pechino e’ un immenso aggrovigliamento di cunicoli che Mao aveva voluto costruire dieci metri sotto terra come rifugio sotterraneo in previsione di una guerra nucleare con la Russia. Per questo nel 1969 il nostro aveva chiesto gentilmente ad un esercito di lavoratori di preoccuparsi di scavare, perche’ no, con le mani, questa citta’ sotterranea, terminata nel 1979, l’anno preciso in cui la Russia decidette di concentrarsi invece sull’ Afghanistan. (I russi in verita’ a casa loro erano stati piu’ furbi ed avevano costruito i cunicoli in modo che fungessero sia da rifugi antiatomici che da metropolitana: cfr. metropolitana di Mosca).
Arrivo in questo edificio abilmente nascosto in mezzo a case basse e botteghe. Nel piccolo atrio di entrata ci sono una decina di persone, tutte vestite da militari, che stanno dormendo o giocando ad un gioco strano con le biglie. Nel momento in cui entro tutti, all’unisono, alzano la testa annoiati per l’arrivo di un nuovo turista – il turista numero tre, secondo il registro tenuto dall’addetta alla tenuta del registro, pure lei vestita da militare. L’addetta alla tenuta del registro chiede a tutti chi e’ che vuole accompagnarmi nei cunicoli, e nessuno risponde, lo chiede un’ altra volta, tutti si guardano ed alla fine un ragazzo, scocciato, si fa avanti e si alza dallo scranno su cui stava giocando, si infila una giacca militare e mi accompagna giu’. Mi chiede se abbia fatto fatica a trovare il posto, e quando gli rispondo di si mostra una certa soddisfazione.
Si scende insieme giu per questi tunnel stretti, freddi ed umidi, che collegavano stanze e luoghi di pubblica utilita’ che nel complesso potevano contenere fino a 300.000 persone. Si procede lungo i cunicoli grigi illuminati da lampadine che penzolano dal soffitto, ed ai cui lati si aprono, di volta in volta, accessi all’ospedale, alle cucine, al cinema, a cunicoli piu’ larghi che arrivano alla citta’ proibita ed a piazza Tiananmen. Alle pareti stanno appesi quadretti celebrativi del regime comunista, tra cui una fotografia di un esemplare di un carinissimo Mig dipinto come un pappagallo. Ad un certo punto si arriva ad una stanza enorme mezza buia che in passato sarebbe dovuta servire da opificio. Varcando la soglia una fotocellula fa accendere tutte le luci e d’improvviso sette commesse in vestito militare escono dal nulla per accogliere i clienti, cercando di vendere principalmente lenzuola, vestiti da donna ed asciugamani. Alla porta di uscita un altra fotocellula fa spegnere tutte le luci e fa tornare le sette commesse nell’oscurita’ da cui se ne erano arrivate.
L’ ultima parte del tunnel e’ una sfilata di fotografie ingiallite della nomenklatura del comunismo cinese, con un finale saluto al vecchio Karl, la cui faccia barbuta sta appoggiata di fianco ad una delle serrate spesse trenta centimetri. E sull’ultima curva in fondo all’ultimo corridoio, da dentro una statua di porcellana bianca il nostro Mao saluta e benedice i turisti entusiasti, le guide vestite da militari e, con commossa gratitudine, tutti i compagni lavoratori che dal 1969 al 1979, con le loro dita e con le loro unghie, hanno reso questo spettacolo possibile.
:: D 11:10 [+] ::
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:: 27.6.05 ::
– Shanghai –
Time magazine ha definito Shanghai “the world’s hottest city”. Anche se Time magazine non e’ l’Economist, su questo punto, stavolta, si puo convenire con Time magazine.
Sono atterrato da poche ore al nuovo aeroporto Pudong. La mia prima preoccupazione e’ stata quella di districarmi con una certa impazienza in mezzo alle indicazioni per correre al nuovo treno a levitazione magnetica che porta in cittuno dei motivi per cui, personalmente, ha senso venire in Cina.
Il treno viaggia, appunto, levitando leggermente sopra una monorotaia piatta, senza fare troppo rumore e senza nessuno sbalzo, ad una velociti crociera di 430 km/h, con punte di 431 km/h. Costruito dal solito consorzio di industrie pesanti tedesche, il treno a levitazione magnetica rappresenta il primo impatto con la Cina per un viaggiatore e l’essenza del suo sviluppo. Mentre sfreccia come un missile sulla monorotaia sopraelevata, in mezzo alle campagne cinesi e tra le baracche basse del proletariato suburbano, si ha la netta percezione che in questo posto stia davvero succedendo qualcosa di grosso.
L’ amico Gervasi raccontava che in fondo tutto quello che sta succedendo in Cina e’ orientato al futuro, tutti gli investimenti di cui il pullulare di gru attorno sono espressione non danno ritorni adesso ma li daranno in futuro, tutta l’energia disordinata che si respira da subito e’ in fondo attesa di qualcosa che si realizzera’ e si toccheron mano piu avanti. Il treno a levitazione magnetica, costato 1.2 miliardi di dollari ed il cui biglietto costa solo 4 dollari, e’ il primo simbolo della volontei cinesi, del governo e delle sue societdi sfoggiare, sedurre, ed ammaliare il futuro senza troppa preoccupazione per il presente.Dopo avere inutilmente provato a restare sul treno e tornare indietro in aeroporto per farmi altri due giri ed altre due scariche di adrenalina, sono arrivato in metropolitana a Piazza del Popolo per incontrarmi con l’amico Gervasi. Si e’ pranzato in locale nuovo, stile finta tenda berbera, costruito in mezzo al parco di fianco agli uffici governativi e circondata da un laghetto. Per i cinesi l’ attrazione principale di questo tranquillissimo laghetto e’ un autoscontro con macchine autoscontro galleggianti che si muovono al ritmo di musica classica ad alto volume, ed il cui divertimento viene complicato dalla presenza di vere e proprie mine antinave sferiche galleggianti che spruzzano getti d’acqua intorno quando vengono urtate, appunto, dagli autoscontro galleggianti.
Ora me ne vado a camminare in giro e cercare di capire questa citta’. Fortunatamente, non sara’ per niente facile.
:: D 07:27 [+] ::
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:: 7.6.05 ::
– Centro del Mondo –
Questa sera lascero’ il Centro del Mondo.
Ma come dice il futuro presidente degli Stati Uniti, I’ll be back.:: D 14:30 [+] ::
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:: 28.5.04 ::
– Vientiane, Laos –
Quattro piccole cose che ho imparato durante questo viaggio.
1) Durante i viaggi in corriera sulle strade tortuose sui monti Laotiani, premurarsi di non sedere di fianco al finestrino, nel caso in cui le persone sedute nelle due file di fronte mostrino sin dalla partenza evidenti segni di sofferenza da nausea, e allo stesso tempo non sia possibile chiudere il finestrino di fianco.
2) E’ opportuno portare con se’ un iPod di riserva, di cui servirsi nel momento in cui il primo, quello in cui si e’ appena terminato di caricare il cinquecentosessantesimo CD da ascoltare durante i lunghi viaggi, cessi improvvisamente ed inesplicabilmente di funzionare il secondo giorno di permanenza.
3) Un massaggio al giorno toglie il medico di torno.
4) La quarta non si dice.
:: D 11:50 [+] ::
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:: 24.5.04 ::
– Vang Vieng, Laos –
Questa mattina, per la prima volta nella mia vita, ho stretto la mano a due veri comunisti. L’episodio e’ avvenuto sul cassone posteriore di un camion, sulla Route 13, precisamente a sedici chilometri (circa) da Muang Phu Khun, in direzione di Kasi.
Mi mancava da morire il ferro nudo delle corriere, il rombo gutturale dei motori anziani, tutto quello che ci viaggia sopra – cose, animali, uomini – e soprattutto le stazioni, mi mancavano le stazioni. Sono partito da Luang Prabang dopo aver camminato tutta la mattina sotto il sole, lungo i vicoli con le case basse in stile coloniale francese, l’odore delle baguette misto a quello delle spezie, ed in mezzo alle famiglie che stendevano i panni lungo le rive del Mekong. Cominciava il pomeriggio e faceva ancora caldo, e la corriera ha cominciato subito a salire sulle montagne.
Il viaggio e’stato magnifico. La corriera si e’arrampicata lungo i crinali, aprendo lo sguardo, qualche volta in basso a sinistra e qualche volta in basso a destra, a valli verdi, desolate ed incontaminate, di cui non si riusciva mai a scorgere la fine. Lungo la strada, ad una distanza di una quindicina di chilometri l’uno dall’altro, tanti villaggi, normalmente allungati ai lati della strada principale, e nei quali la strada principale aveva la funzione di centro della comunita’. Ieri era domenica, ed infatti pareva che nei villaggi si facesse cio’ che si puo’ fare, se si vuole, la domenica – cioe’ niente. Soprattutto, la gente era a riposo nelle capanne, si intravedeva nell’oscurita’, oppure, in alternativa, si lavava. In ogni villaggio c’era un angolo con una fontana dove a decine, bambini, uomini e donne, si lavavano con canestri d’acqua fredda, i bambini nudi e le donne, pudiche, completamente vestite.
Soprattutto, ogni villaggio trabordava di bambini in festa, a giocare tra di loro, con i cani o con maiali grigi, oppure in braccio alle loro madri, normalmente appoggiate allo stipite della porta della capanna.
Nei paesi non c’era niente. Non c’era ferro, non c’era vetro, non c’erano altri colori che non fossero il verde degli alberi o il marrone delle capanne. Il Laos e’ un paese il cui sviluppo e’ rimasto indietro di trenta anni rispetto, pure, ad un paese come la Thailandia. La principale forma di abitazione sulle montagne e’, appunto, una capanna costruita su una palafitta a un metro e mezzo da terra, dalla struttura interna solida ma dai muri evidentemente fragili, costruiti con sottili listelli di legno rettangolare intrecciati, esattamente come un cestino.Era tutto troppo strano, era tutto troppo diverso da tutto cio’che ho visto prima, eppure in paesi gia’ cosi’ poveri. Dopo quattro ore di viaggio, piu’ o meno a meta’ strada, arriviamo al punto piu’ in alto sulla montagna, dove sta un paese il cui luogo centrale e’un crocicchio – da una parte la strada verso sud, dall’altra quella verso il Vietnam. C’e’molta vita, la stessa di tutti i villaggi, eppure qui di piu’, ci sono piu’persone e c’e’ pure qualcosa che somiglia ad un mercato. C’e’ un’atmosfera unica. Quando la corriera si ferma tutto il paese si sposta ancora in mezzo alla strada. La corriera riparte quasi subito e comincia a scendere, io corro a cercare la mia guida e cerco di capire il nome del paese, ma non e’ segnato neanche sulla mappa. La corriera continua a scendere verso valle, tutto attorno fa piu’ fresco e il sole sta tramontando, il paese e’ ormai lontano.
Corro verso l’autista e gli faccio capire che voglio scendere, questo non capisce, poi alla fine pero’ ferma la corriera, e io scendo. In questo momento sono precisamente in mezzo ad una strada nelle montagne del Laos centrale. Comincio a camminare verso il paese, mi volto e la corriera e’ ancora ferma in mezzo alla strada, pare che mi aspetti, mi guardano, allora gli faccio un generoso ciao con la mano, quindi, dopo un po’, riparte.
Mi rendo conto che dovro’ camminare per almeno cinque chilometri, e mi travolge il mio terrore numero uno: i cani randagi. Decido di fermarmi e di mettermi i pantaloni piu resistenti che ho, poi ricomincio. Cammino e lungo la strada incontro decine di persone, bambini che giocano, vecchie donne dalla pelle raggrinzita ferme sul bordo, donne con un bastone sulle spalle con attaccate ceste stracolme, e poi maiali, cani e galline. Tutti quelli cui passo di fianco mi sorridono, supero alcune case e poi ancora soltanto la strada, ora fa fresco e ho il tramonto giusto davanti a me. Dopo un’ ora di cammino, finalmente, faccio la mia entrata discreta nel villaggio, con il mio zaino arancione, gli occhiali da Malibu Beach ed un cappello da sfigato, ed allora tutti, ai lati della strada, a quel punto smettono di fare quello che stanno facendo per ammirare, curiosi, la mia occidentalita’ e la mia novita’ – un gran bel colpo, comunque, per il mio narcisismo.
Confido nel fatto un posto dove dormire non lo si nega a nessuno, e comincio a cercare attorno nel villaggio, nessuno parla inglese e ormai si e’ fatto buio, ma alla fine trovo una signora, anzi tre donne – madre, figlia, e nipote – che mi offrono una stanza a casa loro di fianco a quella dove dormono loro.Me ne vado un po’ in giro, poi mi siedo davanti ad una baracca lungo la strada, qui vendono birra e ne approfitto, e cerco di capire in quale paese sono finito. E scopro che, pur non essendo nella guida, il paese e’ citato quando si parla della guerriglia Hmong, che a quanto pare ha base giusto lungo la strada che stavo percorrendo a piedi due ore prima.
Il popolo Hmong e’, in parte, quello che ho incontrato lungo la strada, ma piu’ in particolare e’ quello con cui si erano alleati gli Stati Uniti durante la guerra di Indocina – la CIA li allenava proprio qui vicino – e che, dopo la guerra e dopo la presa di potere in Laos da parte dei comunisti nel 1975, ha continuato a fare opposizione ai comunisti, con atti di guerriglia appunto, scorrerie varie, attentati qui e la’, ed aggressioni armate agli autobus locali giusto su questa strada con relativi stranieri morti ammazzati, tutti con lo scopo di contrastare o danneggiare indirettamente il governo comunista. Amici miei, in fondo.
Comunque, pare che negli ultimi tempi la zona sia diventata piu’ tranquilla, anche se rimane una delle ultime zone di resistenza. In ogni modo decido di sospendere per stasera la tradizionale passeggiata al buio sotto le stelle, e me ne vado nella mia stanza.
La mattina mi sveglio di buon’ora, e me ne resto seduto davanti al crocicchio a guardare il paese che si sveglia, gli uomini che caricano cose, ed i primi commerci di frutta e verdura lungo la strada principale. Devo cominciare a scendere verso sud, ho ancora quattro ore di viaggio fino a Vang Vieng. Trovo un camion che mi da’ un passaggio nel cassone posteriore, in mezzo ad altre cinque persone. Uno dopo l’altro loro scendono ed io rimango da solo nel cassone, dove dovro’ restare per un buon duecento chilometri.
Mi appoggio con la schiena ai sacchi di verdura. Sono estremamente di buon umore. Ho una visuale eccellente della strada e delle montagne attorno, il cielo e’ blu, il camion scende lentamente lungo la valle e l’ aria fresca mi rimbalza sulla fronte. Rifletto sulla situazione politica e penso agli attacchi dei banditi, in fondo usavano avvenire proprio qui, non faccio a tempo a finire il pensiero che passiamo di fronte ad una corriera abbandonata da un po’ di fianco alla strada, con il lato sinistro crivellato di proiettili. Tre curve dopo, due ragazzini con il mitra spianato in mezzo alla strada fermano il camion. L’ autista fa segno dietro, verso il cassone dove sono coricato io, e questi vengono verso di me. Mi vedo costretto ad alzarmi dai sacchi dove stavo coricato, per capire che succede. I due ragazzi alzano il mitra, poi mi fanno un sorriso, appoggiano l’arma sul mio zaino e salgono di fianco a me, non hanno piu’ di quindici anni, ci conosciamo e gli stringo la mano.Deduco facciano parte dei battaglioni spediti qui – solo dopo la recente asfaltatura della strada – per contrastare la guerriglia Hmong. Lungo i successivi quaranta chilometri ci sono altri quattro posti di blocco, all’ultimo saluto i ragazzi che scendono con i loro mitra. Il viaggio procede fino a Kasi, poi devo scendere dal camion e aspetto per una mezz’ora che ne arrivi un altro. Il primo che arriva e’ carico di gente, vecchi, donne, bambini.
Ad un certo punto, dopo tre curve, ci fermiamo, ci sono tre persone che devono salire. Una ha in mano due sacchi bianchi, un’ altra dei fasci di foglie molto larghe, la terza una cesta con dentro due galline, una bianca ed una nera.:: D 07:31 [+] ::
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:: 18.5.04 ::
– Pai –
Si parlava di guerra e pace, l’altra sera con Saskia. Si parlava di quale e’ il limite entro il quale un popolo si deve in qualche modo occupare del destino di un altro popolo, ossia di quali sono i presupposti grazie a quali, in concreto, uno stato puo’ interferire, seppure con un progetto positivo, nel destino di un altro stato o di un altro popolo, combattendo per lui o al suo fianco, e liberandolo dalle mani del nemico. Il che e’ un argomento, come si dice, di scottante attualita’. Con Saskia ad un certo punto ci si e’ incagliati durante la discussione. Allora ho tirato fuori la storia del Tibet.
Il popolo tibetano e’ stato, nel corso degli anni recenti, cacciato dal Tibet dai Cinesi, il governo costretto all’esilio in India, e la struttura di supporto della filosofia buddista – monasteri e luoghi di culto – fisicamente distrutta. L’opera di rimozione della cultura e della tradizione buddista in Tibet da parte della Cina e’ gia’ ad un ottimo livello, anche se, prima di finire il lavoro, rimane ancora qualcosa da fare.
Il Tibet ha reagito sostanzialmente, nella storia, facendo cio’ che il Buddha insegnava: ossia assolutamente niente. Facendo la pace.
Il buddista non ha nemici, e non considera nella sua cultura la reazione violenta ad un’ azione violenta. Una posizione del genere davvero colpisce. Quando avevo incontrato I monaci tibetani che erano scappati dal Tibet camminando per quattro mesi sulle montagne ghiacciate verso lIndia, ed erano arrivati alla meta perdendo per la strada la stragrande maggioranza del gruppo, essi non nutrivano nessun rancore verso I Cinesi che a questo li avevano costretti appunto, perche loro non conoscono nemici. Una posizione del genere davvero colpisce ed affascina, soprattutto affascina chi proviene da una cultura nella quale storicamente, nel caso dellattacco di un nemico, si e stati abituati ad impugnare unarma sia stato per difendere il potere, un area geografica, oppure la liberta di un popolo. Una posizione del genere, la rimozione dellodio dallintimita delle coscienze, e di preciso cio verso cui in tanti tendono per aiutare il mondo ad un cammino verso la pace. E pure, gia tutto questo esiste, gia’ tutto questo e’ realta’.
Si parlava, con Saskia, di quale e il limite entro il quale, pero, puo sopravvivere al mondo un nucleo di persone sufficienti a mantenere in vita la cultura e la tradizione di un popolo, come quello Tibetano, in questo caso. Infatti, I Buddisti tibetani stanno scomparendo velocemente, e, come dicono loro stessi, “time is running fast”.Ci si e arenati giusto qui. Da un lato il fascino di una reale posizione non violenta, dall altro un punto interrogativo. Il pomeriggio del giorno dopo allora sono andato fuori citta’, in un monastero buddista nella foresta. Un monaco teneva una lezione pubblica, ed io gli ho girato la domanda. La risposta e stata molto interessante, ha parlato degli insegnamenti del Buddha, della non-violenza, della tranquillita dellanima delle persone.
Sennonche’, ad un certo punto, tornando all esempio dei Tibetani che mi interessava, ha detto una frase che pareva semplice e scontata allinterno del discorso, ed alla quale non ha neppure associato unintonazione particolare, ma dallimportanza radicale. Diceva che, in Tibet, per forza e senzaltro i Buddisti saranno annientati, la cultura dispersa, il culto e la tradizione distrutti. Questo succedera, e gia successo nella loro storia, e niente sara fatto per resistere niente che non sia non-violento, azione diplomatica, dialogo – perche avere la tradizione e la religione distrutta e sempre meglio che combattere.Qui ci si era arenati, e questo probabilmente e il punto focale. Perche una posizione del genere funziona soltanto, paradossalmente, se non esiste il male, ossia se non esiste al mondo soltanto una persona a cui interessa dominarne un altra. La soluzione, in fondo, forse sta tutta qui, credere o no che il peccato originale esista, credere o no che il male, di cui facciamo intima esperienza ogni giorno, ci sia.
Da cio’ consegue tutto: il proteggere il proprio popolo, la propria cultura, la propria tradizione, e pure quella degli altri, o lasciare che qualcuno, siano lesercito cinese in Tibet o quattro piloti in America o tre persone in Spagna, se li prenda. Li annienti. Ne eradichi la storia.
Questi sono i termini dentro cui si muovono la guerra e la pace, e questi sono i tempi in cui si puo’ decidere se, come per il Tibetani, sia sempre meglio avere la propria tradizione e religione il proprio popolo distrutti, piuttosto che combattere.:: D 04:03 [+] ::
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:: 16.5.04 ::
– Chang Mai –
Terni e’ una citta’ orrenda, punto. Bergamo Alta, invece, e’ molto bella. Ma ci sono alcuni luoghi al mondo che sono piu difficili da giudicare o da definire. Chang Mai, ad esempio. Una cittadina del nord della Thailandia apparentemente senz’anima, che doveva servirmi semplicemente come base di partenza per il resto del mio viaggio verso Nord, ma dove alla fine mi sono fermato ben tre notti.
Chang Mai e’ una piccola citta con strade di media larghezza e case basse. Due cose definiscono questo posto. Primo, il traffico di auto e motorini e’ esattamente della stessa caratura in ogni strada della citta’, sia in centro che in periferia, e’ perfettamente spalmato sul territorio, non ci sono vie senza traffico come non ci sono vie con piu traffico delle altre. Il traffico e’ lo stesso ovunque, ed infatti non ci sono code.
Secondo, il tessuto delle attivita’ commerciali della citta’ e’ quello tipico dell’economia di un paese che sta cambiando velocemente, e quindi di per se difficile da definire. Accanto a successioni di guesthouse e recenti bar per backpackers si trovano officine familiari minuscole e buie in cui si aggiustano o producono cose piccole e non definibili, generalmente di metallo, e giusto di fianco un negozio enorme dove vendono soltanto macchine fotocopiatrici nuove.Ieri sera avevo una voglia irresistibile di farmi una pizza. Ho cercato e trovato un ristorante italiano, il proprietario, Roberto, e’ di Parma. I ristoranti italiani all’estero sono sempre un rischio, ma questo mi ha affascinato e convinto da subito; appena varcata la soglia ho avuto l’impressione di entrare in una trattoria vicino a Scandiano, una di quelle di basso livello con le tovaglie di plastica a fiori dove, se le tovaglie sono opportunamente appiccicose, allora si corre il rischio di mangiare davvero bene. Roberto mi e’ stato simpatico perche’ mi ha tirato fuori del crudo di Parma che non era scritto sul menu, poi mi ha presentato la moglie, una thailandese che parla con perfetto accento parmigiano ed alla quale ogni tanto molla una pacca sul sedere per mandarla in cucina a finire la pasta delle lasagne.
Ad un certo punto e’ entrato un tipo sulla cinquantina che sembrava uscito da un fotoromanzo di fine anni ’70, la faccia rotonda, i baffi, ed una polo color carta da zucchero con l’ultimo bottone abbottonato. Il quale personaggio ha cominciato a parlarmi della sua vita, e, stimolato dalle mie domande, e’ arrivato subito al dunque. La New Age. Appena ho sentito queste parole mi sono illuminato e subito un ghigno sarcastico e’ comparso sul mio volto, ed ho pensato quando era stata l’ultima volta che avevo parlato con uno di questi. Devo ammettere che mi mancavano, mi mancava davvero avere davanti qualcuno che riesce a spiegarmi il motivo del suo essere al mondo e della sua felicita’ riconducendo tutto a tre frasi della semplicita’ esilarante o dalla totale sconnessione con l’essere dell’uomo e la realta’. Cio’ che ieri mi ha fatto piu’ sogghignare, mentre lo spronavo con le mie domande a rincarare la dose, e’ stato qualcosa riguardo al futuro, ed al fatto che il futuro cambia, quindi il potere delle nostre azioni, oggi, cambia il futuro domani, ed il potere delle nostre azioni, domani, cambia il futuro dopodomani. Quando poi ho citato tre o quattro libri sul tema che ho in casa, allora ha avuto un’esplosione di gratitudine e felicita’ nel constatare quanto fossimo sulla stessa lunghezza d’onda.Sono uscito, ho camminato una buona mezz’ora lungo il fiume e sono arrivato all’unico locale che resta aperto fino alle due di notte, il Bubble, un posto con l’arredamento dark di una discoteca da domenica pomeriggio.
Ho conosciuto Jen, che mi ha scarrozzato in giro per Chang Mai deserta di notte sul suo motorino. Faceva caldo, e dal sedile di dietro allargavo le braccia ai lati come si fa, quando si e’ contenti, nelle notti d’estate.:: D 08:21 [+] ::
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:: 11.5.04 ::
– Bangkok –
Bangkok e’ la Milano del Sud Est Asiatico: una brutta citta’ con alcuni angoli preziosi.
In questi due giorni la citta’ mi e’ passata accanto velocemente e senza stravolgere il basamento delle mie sensazioni. Parecchi deja vu asiatici e stereotipi ora eccessivamente stereotipati oppure sfruttati per i gruppi organizzati di turisti Europei in stopover verso Phuket.
Persino Patpong, un tempo luogo rinomato di prostituzione minorile verace, e’ decaduto al rango di mercatino di bancarelle delle solite magliette globali e dei soliti orologi finti. E giusto accanto ai locali go-go piu’ prestigiosi, ora specchietti per le allodole, ne sono nati da poco tanti altri che ne riprendono il marchio con nomi improbabili – King’s Castle e’ declinato in almeno cinque diversi nomi in cinque diversi locali. Insomma, la piu’ disonorevole delle fasi di declino di un quartiere che un tempo doveva promettere davvero bene.Della mia prima visita a Bangkok mi hanno appassionato tre cose.
Prima di tutto, il traffico. Il traffico di Bangkok e’ la caricatura mondiale di un ingorgo eterno ed infinito. Macchine ferme, sempre ed ovunque. L’attesa di un piccolo movimento e’ cosi’ fuori da ogni logica che la dilatazione temporale diventa persino piacevole e divertente.
Secondo, la meravigliosa casa di Jim Thompson, un architetto Americano che all’inizio del secolo scorso, durante un viaggio in Thailandia, rimase colpito dalla bellezza delle sete locali, e comincio’ a mostrarle nei luoghi del mondo in cui questa bellezza era piu’ apprezzata – Milano, Parigi, New York – iniziando un solido commercio. La casa nella quale abitava e’ ora un museo; la sua architettura, gli interni e l’arredamento sono un monumento alla bellezza delle cose della realta’. I particolari visibili o nascosti dei mobili, delle decorazioni delle ceramiche e dei materiali pregiati, provenienti dalla Thailandia, dall’Asia e dal mondo intero, rendono ragione del divino che si nasconde nelle minuzie, e sembrano mimare il senso di devozione ad esso degli artigiani e degli artisti durante la loro opera di creazione.:: D 22:32 [+] ::
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:: 2.4.04 ::
– Atlantic City –
Il Borgata e’ l’ultimo nato tra i casino di Atlantic City, cioe’ quello in cui bisogna essere adesso.
I mobili delle stanze sono costruiti per durare tre anni, le ante degli armadi hanno gia’ ora accoppiamenti sbilenchi, la tappezzeria e’ troppo sottile e brutta per resistere, la moquette nuova e’ gia’ scura lungo i percorsi dei corridoi – tutto e’ programmato per durare, cioe’, finche’ il tutto non sara’ piu’ una novita, finche il tutto non sara’ piu il posto dove bisogna essere. Allora la clientela cambiera’, i sessantenni e i settantenni allora risponderanno alle offerte dei weekend a 59.99, ed i giovani di Philadelphia e New York che vogliono giocare, bere alcool gratis, e fumare all’interno dei locali si sposteranno nel posto dove, tra tre anni, bisognera’ essere.
E’ divertente osservare, come sempre nei casino. E’ divertente osservare il figlio di un prete e di una suora che dopo diciassette ed undici anni – rispettivamente – decisero di fare due figli, il maggiore dei quali e’ ora seduto al tavolo del Black Jack da quindici dollari, e quando prende le decisioni del gioco consulta la tabella scaricata da Internet giusto prima di partire da New York. E’ divertente osservare la figlia di uno degli amministratori delegati piu’ in voga d’America perdersi dietro i cocktail – sempre lo stesso cocktail – ed intanto vincere o perdere senza troppo entusiasmo e senza troppa disperazione. E’ divertente guardare gli altri, ragazzi e signori che urlano di gioia al risultato del banco, che girano attorno ai tavoli ed un poco, e’ vero, un poco molestano attorno. E che comunque vengono lasciati fare, perche’ tanto, come tutti quelli attorno ai quali offrono per un’istante l’immagine della vittoria, alla fine, come tutti, perderanno.[…] Everything dies baby that’s a fact
But maybe everything that dies someday comes back
Put your makeup on fix your hair up pretty and
meet me tonight in Atlantic City.:: D 02:14 [+] ::
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:: 16.3.04 ::
– Tokyo –
Ho finalmente coronato il sogno di una vita: dormire in una capsula a Tokyo.
Il Capsule Inn Akasaka non mi attirava per niente – faceva troppo Holiday Inn, faceva troppo cheap – allora ho chiamato il Green Plaza Shinjuku: “Hi, do you have a capsule for tonight?”.Arrivo verso le dieci di sera. L’hotel e’ in mezzo ad una specie di quartiere a luci rosse, dove i peep show si confondono tra le migliaia di sale giochi e slot machine. Si entra dal piano terra di un edificio dove non si capisce bene cosa ci sia, anche perche’ tutte le scritte sono soltanto in giapponese. La hall e’ rossa e deserta, con alcune fontane poco mantenute ai lati. Scendo sopra la moquette rossa consumata sugli angoli dei gradini e decisamente sozza, salgo sull’ascensore, e noto che anche questo e’ veramente sporco. Un cartello avvisa che e’ assolutamente vietata l’entrata ai portatori di tatuaggi ed agli ubriachi. Ringrazio il cielo per essere riuscito, ai tempi, a sedare gli impeti giovanili da tatuaggio, e nel frattempo arrivo alla reception.
C’e’ un bancone molto lungo, naturalmente diverso da quello degli alberghi e piu’ simile a quello di McDonald’s, apparentemente molto efficiente, e ci sono molte persone in coda, che vengono pero’ smaltite velocemente.
Mi avvicino ed una ragazza mi guarda: “You are here for the capsule?”. Io le rispondo di si e lei guarda spaventata le mie scarpe – me le dovevo togliere, ed in effetti mi guardo intorno e sono tutti scalzi.
L’operazione di check-in e’ particolare, e deve gestire anche l’assegnazione di tre armadietti – uno per le scarpe, uno per i vestiti ed uno per le valigie grandi come la mia – e per l’inserimento di cose di valore all’interno di una busta gialla che viene poi sigillata davanti ai miei occhi. Capisco di essere un cliente particolare, prima di tutto perche’ sono biondo, e poi perche’ in pochi hanno una valigia. Mi viene data una chiave dell’armadietto e mi viene ritirata la chiave delle scarpe – non e’ possibile avere controllo delle due chiavi contemporaneamente. Mentre pago mi volto, e vedo un tipo completamente nudo con una specie di camicia azzurrina sulle spalle che sta salendo le scale.
Con la carta di credito in mano, guardo meglio e noto decine di persone che salgono o scendono le scale, nudi oppure con dei boxer blu, tutti scalzi ed alcuni con un piccolo asciugamano giallo in mano. Allora mi concentro su quelli che stanno facendo check-in con me: classe media, gente in giacca e cravatta, alcuni ben distinti dentro gessati grigi e cravatte impeccabili, alcuni ragazzi della mia eta’ in abito, qualche barbone e dei vecchi. Sono l’unico occidentale, ma come succede in Giappone nessuno mi presta attenzione.Entro nella stanza degli armadietti e cerco il mio. Per ogni fila di armadietti ci sono persone che si stanno cambiando – tutti si stanno spogliando e si stanno mettendo la divisa offerta dalla casa: boxer blu, camicia azzurra, e nient’altro. Sembra che tutti sappiano dove andare e come fare, sembra che tutti sappiano come funziona.
In fondo ad ogni fila di armadietti c’e’ una sedia dove sta seduta una persona nuda a fumare. Nel bagno ci sono spazzolini usa e getta, rasoi usa e getta, shampoo, saponi ed ogni genere di crema, pero’ il bagno e’ vecchio e trasandato.Chiedo per le docce, e mi dicono che devo salire tre piani, salgo le scale e per le scale ci sono decine di persone che salgono e scendono con destrezza – sembrano di casa. Arrivo al settimo piano, anch’io ora sono scalzo, i boxer blu e la camicia azzurra. Entro in una stanza dove c’e’ una grande vasca con tante persone sulla cinquantina addormentate nell’acqua con l’asciugamano giallo sulla fronte. Nessuno mi degna di uno sguardo, anche se in questo contesto sono decisamente diverso dagli altri. Lungo tutti i lati della stanza ci sono tanti seggiolini bianchi su cui bisogna sedersi per fare la doccia – non esiste quella in piedi. Dopo la doccia tutti vanno in una stanza dove ci sono pile di asciugamani gialli – qui ci si asciuga sopra una pedana davanti ad un ventilatore che spara aria fredda a massima velocita’ verso quelli bagnati che si stanno asciugando. La stanza di fianco e’ un altro bagno enorme dove ai lati stanno prodotti diversi e dove tutti si sistemano un po’.
Dopo la doccia scendo. Tutti sono scalzi, ma il luogo non e’ pulito. O meglio, pare pulito pero’ e’ vecchio, quindi in fondo e’ sporco. Dopo la doccia esco per la serata, e mentre esco altri uomini in giacca e cravatta ed un ragazzo in smoking con il papillon un po’ sfatto stanno arrivando.Ritorno verso le due e ci sono ancora persone al check-in, ancora giacca, cravatta, e calze. Salgo all’ultimo piano ed entro in una stanza grande dove ci sono centinaia di persone, tutte scalze ed in mutande. A destra dell’entrata ci stanno otto lettini e di fronte agli otto lettini otto massaggiatrici – il must qui e’ il massaggio plantare. Giusto a sinistra c’e’ una specie di ristorante self service che non degno di attenzione, e tutto il resto del piano e’ occupato da tanti piccolissimi banchi – come quelli delle elementari – ognuno separato dall’altro, e tutti orientati verso una televisione. Sui banchi la gente cena, legge i giornali, guarda la televisione, oppure parla ad alta voce con se stessa come nei manicomi. Mi siedo mentre aspetto il massaggio plantare e scopro che il ragazzo di fianco a me e’ pazzo. E’ un giapponese grasso, il che innanzitutto e’ raro, che ha riflessi strani di fronte alla sua birra mentre guarda la televisione – si agita ma e’ come incantato, passivo di fronte agli eventi.
Il massaggio plantare e’ ottimo, esaltato dal rumore della russata insostenibile dei due salarymen giusto di fianco; dopo il massaggio decido che e’ il momento di entrare nella capsula. La mia capsula e’ al terzo piano dell’albergo, lungo un corridoio ai cui lati stanno queste specie di loculi di plastica, che sembrano lavatrici ma che pero’ non dispongno di sportello e restano sempre aperti; l’entrata e’ di un metro per uno, e per ogni corridoio ci sono due piani di capsule.
La gente russa molto qui, e si capisce infatti perche’ la reception vende i tappi. Le capsule sono di colore giallo, un giallo inizi anni ottanta, effettivamente il posto e’ vecchio. La capsula e’ pulitissima, c’e’ una console di comando con radio, luce, sveglia, una televisone di pollici undici che sbuca fuori dall’alto, un sensore di fumo, una tendina.Spengo la luce. La mia capsula e’ al piano terra, cosi’ per tutta la notte vedo bene quelli che camminano nel corridoio, gente che arriva e che se ne va ad ogni ora, avanti e indietro. Prima indossavano una giacca e una cravatta, ora hanno i boxer blu, la camicia azzurrina, e camminano tutti scalzi.
:: D 10:12 [+] ::
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:: 11.3.04 ::
– Kyoto –
In fondo, tutto il mondo e’ paese.
Le notti brave degli adolescenti e degli adolescenti attempati di tutto il mondo in fondo hanno tutte la stessa struttura. Si esce dai club all’alba, ci si ferma un po’ li’ davanti, qualcuno urla, qualcuno ride, qualcuno canta. Poi nella peggiore delle ipotesi, si va a mangiare. Gruppi di amici che entrano mentre altri gruppi di amici escono. A volte sono ristoranti, a volte bar, a volte panifici. A volte brioche, a volte pizza, a volte hamburger. Qui a Kyoto, invece, noodle soup.:: D 10:20 [+] ::
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:: 7.3.04 ::
– Tokyo –
Sul fianco sinistro della tazza sta appesa una console con quattro bottoni, una manopola ed un display luminoso. Appena si sfiora la ciambella l’apparato meccanico-elettronico si mette in funzione, per la gioia dell’utente del water.
L’utente dispone di diverse funzioni, illustrate dal simbolo di getti d’acqua, piu’ o meno vaporizzata, sopra simboli di chiappe, piu’ o meno felici. La temperatura e la pressione sono selezionabili dall’utente, ed il tutto comincia con un delizioso rumore elettrico – simile al rumore dei trucchi della DB5 di James Bond – ed una specie di erogatore fuoriesce dalla sua sede.
Nei bagni femminili (*) i diffusori sonori emettono il suono di un delicato scroscio d’acqua – due le teorie, a lungo dibattute: che il suono serva a stimolare la seduta, oppure sia solo rumore di copertura.
Nei bagni pubblici, dopo essersi lavati le mani, le si inserisce in una fenditoia da cui esce aria ad alta pressione – e fino a qui niente di nuovo. Ma all’atto dell’inserimento, una luce blu ultravioletta si accende ad illuminare le mani, per eliminare, cautamente, eventuali germi coriacei.
Per quelli che indugiano in lunghe docce che risultano in bagni allagati ed annebbiati, nei bagni degli alberghi c’e’ una sezione rettangolare dello specchio che non si appanna, mai.
Nei bagni pubblici, spesso, attaccato al muro si trova un portabambino di sicurezza – in questo caso l’utente del bagno inserisce il bambino per essere piu’ libero nell’utenza. Il portabambino non e’ dotato di videogiochi ne’ telefono cellulare I-mode.(*) L’esperienza non e’stata vissuta in prima persona dal redattore.
:: D 02:10 [+] ::
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:: 5.1.04 ::
– Steamboat Springs, Colorado –
:: D 20:29 [+] ::
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:: 2.12.03 ::
– Centro del Mondo –
Questa sera ho deciso di concedermi un programma di informazione politica, cosi sull aereo mi sono visto Terminator 3.
Tre cose mi hanno mandato in visibilio: il fatto che il Terminator cattivo questa volta fosse una bella ragazza, battute autoreferenziali tipo: I lied e I am back, e che queste fossero pronunciate con un vago ma indubbio accento austriaco.I miei vicini di viaggio sono la classica coppia di democrats newyorkesi. Due persone sulla sessantina, lei piu alta di lui, che sembrava si volessero molto bene e fossero in viaggio per unoccasione particolare. Hanno insistito parecchio per avere un bicchiere di champagne dalla hostess, ma in fondo leconomy e pur sempre leconomy, eppure alla fine lhanno ottenuto e brindato. Per un attimo, tra le varie ipotesi che mi sono venute alla mente, ho pensato che avessero vinto dei soldi in qualche modo. Poi ho dato un occhiata al libro che lui stava leggendo e sottolineando con precisione adolescenziale: How to make money with stocks. Forse piu avanti.
Londra e una citta brutta, insopportabile e deprimente.
Non vedevo lora di ritornare qui, non vedevo lora di riannusare questi odori e di riascoltare questi suoni, e di rivivere lelevazione gotica dei grattacieli di notte. Sul taxi verso la citta’ pero la mia compagna del settimanale tedesco mi parlava del lavoro di editor, cosi i miei occhi, per educazione, sono rimasti fermi verso di lei, finche non ce lhanno piu fatta e, giusto prima del tunnel di Midtown, si sono voltati come una molla verso il fiume, e dietro il fiume i palazzi.
Nient’altro allora e parso, nella pratica, piu importante di quelli, e quanto piu si entrava nelle strade, tanto piu le tessere riprendevano il loro posto, e tutto cio di cui ero stato privato ritornava in ordine, le luci, i colori, i suoni, lautista nero balbuziente che parla napoletano sul suo taxi giallo.Solo unimmagine scura, bisogna ammetterlo, rubava spazio a quei colori, solo un silenzio a quei suoni, solo un flash, un rapimento di pensiero involontario a quella vita. Il chiostro di Piacenza del giorno prima, nel cuore della notte, le luci gialle tra la nebbia, solo quel silenzio totale nel battere della pioggia rubava, ogni tanto, per un attimo, la scena al teatro di quelle strade.
:: D 02:03 [+] ::
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:: 28.11.03 ::
– London –
Cio’ che mi diverte di piu’ fare in questi giorni e’ prendere un bel banchiere d’investimento, prenderlo duro, puro ed acuto, parlare duro, puro ed acuto, e poi sul finire chiedergli se e’ felice. E sentirsi sempre rispondere – duro, puro ed acuto – no.
:: D 20:09 [+] ::
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:: 14.11.03 ::
– Centro del Mondo –
Questa sera, per la prima volta da quando sono arrivato qui, ho guardato la televisione.
E’ successo a casa di Marty, un americano che indossa giubbotti di pelle ed e’ un mix in parti uguali di Robert De Niro, Arthur Fonzarelli e Bart Simpson, e con Shirzad, un indiano che somiglia all’attore di un Bollywood-movie.
Ci siamo messi comodi ed abbiamo visto l’ultimo acquisto del padrone di casa, il Video CD de “Il Mago di Oz”, il film del 1939 che comincia in bianco e nero e dopo qualche minuto ti spara un grandissimo Technicolor, colori vivaci, oserei dire psichedelici, nell’edizione speciale muta e sincronizzata con The Dark Side of the Moon.:: D 01:15 [+] ::
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:: 9.11.03 ::
– Chicago –
Chicago e’una piccola New York, solo che si ascolta il blues e si puo fumare nei bar.
:: D 16:42 [+] ::
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:: 11.10.03 ::
– Centro del Mondo –
Sala macchine di barca in disuso sul fiume Hudson
:: D 02:53 [+] ::
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:: 7.10.03 ::
– Centro del Mondo –
In fondo i personaggi ci sono sempre, basta cercarli. Uno dei miei preferiti qui, forse quello che piu’ ero voglioso di trovarmi di fronte un giorno, e’ il rivoluzionario zapatista.
Il rivoluzionario zapatista, nel contesto della biblioteca della Business School dove lungo le reti wireless a banda larga svolazzano da un computer all’altro milioni di pulitissimi fogli di calcolo, dove la moquette attutisce il volume delle menti dei dirigenti wannabe, dove nessuno ha troppo tempo di fare due chiacchiere perche’ time (will be) money, ebbene in questo posto e sopra quella moquette, il rivoluzionario zapatista e’ un sollievo, un spettacolo, una certezza incrollabile.
Ed e’ tutto, siori e siore, tutto secondo i crismi.Brasiliano.
Barba lunga, ma non troppo.
Ricercatamente trasandato. Ma non troppo.
Scarpe di cuoio da buttare. Queste si.
Laptop IBM con nuovo processore Intel. Veloce.
Dietro lo schermo del laptop IBM: adesivo giallo fosforescente con stella del Partido dos Trabalhadores. Rossa.:: D 22:41 [+] ::
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:: 19.9.03 ::
– Centro del Mondo –
Diversamente da cie scriveva il Corriere della Sera, l’uragano Isabel probabilmente non causerun altro blackout pinde di quello di Agosto”. Il prestigioso quotidiano di Via Solferino vede i newyorkesi che “si aspettano il peggio”.
Effettivamente, questo venticello astidioso, fastidioso, fastidioso. Gli scoiattoli nel campus ed alcuni piccioni, ma non tutti, non potendo leggere l’italiano, si sentono un poco interdetti con tutte le cose che volano attorno. Riguardo agli esseri umani, invece, il sindaco Bloomberg ha fatto un proclama a reti unificate alla cittadinanza tutta, per avvisare di chiudere bene le finestre che, con tutta quest’ aria, si rischia di rovinare le tende.:: D 18:16 [+] ::
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:: 19.8.03 ::
– Centro del Mondo –
Il primo americano con cui ho avuto l’onore di parlare si chiama Andrew Cavanna, il padre e’ di Bettola e i suoi parenti producono coppe e salami a Groppallo.
:: D 20:23 [+] ::
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